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Contemplando la nostra vita teatina alla luce della Pasqua 2020

By Community Manager

Mag 03 2020

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Omelia del Padre Generale alla Veglia Pasquale, 04.11.20
(Sintesi)

Nella notte santa della Risurrezione del Signore, il Preposito Generale, Rev.mo P. Salvador Rodea González, C.R., si è rivolto alla comunità religiosa di Sant’Andrea della Valle, per accennare ai valori che ci vengono comunicati dalle letture della Parola di Dio.
Anche si è riferito alle verità racchiuse nella stessa notte in cui tutti condividiamo le nostre esperienze del Risorto.
In questa prospettiva, il contesto di restrizioni imposta dal governo alla possibilità di spostarsi e realizzare determinate attività, ha notevolmente influito nel modo in cui la comunità si è disposta a vivere quella particolare liturgia della Veglia Pasquale.
Un bel momento per ricordare quali sono i doni che ognuno apporta alla vita fraterna in comune. Doni, caratteristiche personali, che si sono visti riflessi nel modo in cui la comunità è andata incontro ai bisogni sorti con l’emergenza sanitaria. Perciò dal vissuto di questi giorni si deve conservare il lume che guidi ogni nostra giornata successiva.

Omelia del Padre Generale nella seconda domenica di Pasqua, chiamata “della Divina Misericordia”, 19.o4.20

Il brano evangelico continua parlando di Tommaso che non crede se non vede. Ma per una volta lasciamo in pace il povero Tommaso e occupiamoci di un altro tema: la domenica come giorno di festa e di riposo dei cristiani. Le due apparizioni del Risorto agli apostoli nel cenacolo, entrambe nel «primo giorno dopo il sa­bato», ci vengono presentate infatti dall’evangelista co­me il prototipo dell’assemblea domenicale della Chiesa.
 
  La domenica nasce con la risurrezione di Cristo. Gesù risorge il «primo giorno dopo il sabato». Quello stesso giorno, verso sera, Gesù appare ai discepoli riu­niti nel cenacolo e dà a loro il suo Spirito e la sua pace. Per i cristiani questo giorno divenne per eccellenza «il giorno del Signore» e siccome in latino Signore si dice “Dominus”, il giorno del Signore (dies [dominica], dominus) si chia­ma domenica. In questo giorno, i credenti si riunisco­no; vi entra con loro Gesù «a porte chiuse», cioè non da fuori, ma dall’interno, nell’Eucaristia; dà ai discepoli la pace e lo Spirito Santo; nella comunione, i discepoli toccano, anzi ricevono, il suo corpo ferito e risorto e proclamano la loro fede in lui.
 
 Quando il cristianesimo, dopo Costantino, divenne la religione dominante, la domenica prese il posto del sabato giudaico, come giorno di festa anche civile, e diede il nome al primo giorno della settimana che fino allora si chiamava «giorno del sole». (Questo nome si è conservato nei paesi anglosassoni: l’inglese Sunday e il tedesco Sonntag, significano infatti «giorno del sole»).

Per i cristiani è alla domenica che si applica ormai il terzo comandamento di Dio: “Ricordati di santificare le feste”.
 
  In questi giorni di Pasqua la liturgia ci ha fatto assistere alla nascita della fede pasquale.  Mediante il racconto delle apparizioni del Risorto, abbiamo visto rinascere nei discepoli di Gesù, scoraggiati e dispersi, la fede e l’amore in lui: la risurrezione ha generato la fede.
 
  Oggi, se sappiamo leggere la Parola di Dio, possiamo fare un passo avanti e assistere alla nascita della comunità pasquale, quella che dovrà tener desta e annunciare la fede nella risurrezione di Cristo fino al suo ritorno.
 
 Questa prima comunità ci è presentata nel Vangelo: sono gli undici apostoli riuniti otto giorni dopo la’ Pasqua.  La storia di Tommaso ha un significato preciso per l’evangelista san Giovanni.  Esso è racchiuso in quelle parole di Gesù: «Beati quelli che, senza aver visto, crederanno». Questa parola è ripresa dall’apostolo Pietro nella seconda lettura di oggi.  Alle prime comunità cristiane della diaspora egli scriveva: «Voi lo amate pur senza averlo visto, e ora, senza vederlo, credete in lui». È nata la comunità cristiana del futuro: quella che ama, crede e annuncia Gesù Cristo e la sua risurrezione, pur senza averlo visto con gli occhi del corpo.  Gli Atti degli Apostoli, nella prima lettura, ci hanno descritto un po’ più da vicino questa prima comunità nata dall’annuncio della risurrezione dopo la Pentecoste: «Essi erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera… » (Atti, 2, 42-47).
 
  Quando ascoltiamo queste cose noi ci riportiamo spontaneamente col pensiero alle origini della Chiesa e un senso di tenerezza e di nostalgia ci sorge nell’anima, come quando riaffiora in una persona il ricordo della propria infanzia felice.  Ma è sbagliato.  Tutto ciò non è realtà del passato, finita come è finita per l’adulto la stagione della sua infanzia.  È realtà del presente.  Quell’assemblea di discepoli otto giorni dopo la Pasqua, nella quale si rese presente il Risorto, diede ai suoi la pace e confermò ad essi la sua risurrezione, non è mai cessata in questi venti secoli di vita della Chiesa. Essa continua nell’assemblea eucaristica e domenicale che noi stiamo celebrando.
 
 Ogni giorno e anche con una comunità domenicale è quell’«ottavo giorno dopo la Pasqua» in cui i discepoli erano riuniti in casa.  Naturalmente, questo ci obbliga ad approfondire il confronto tra le nostre assemblee eucaristiche e domenicali e quella prima assemblea.
 
  Il quadro esterno è fondamentalmente lo stesso.  Anche noi siamo qui riuniti, «il primo giorno dopo il sabato», per ascoltare l’insegnamento degli apostoli; siamo riuniti nella frazione del pane e nella preghiera comune.  Anche noi ascolteremo il saluto del Risorto che dice «Pace a voi». Non vedremo lui in persona, non metteremo il dito nel suo costato come fece Tommaso; egli si farà presente attraverso la sua parola e il suo sacramento.  Ma ha detto egli stesso che credere in lui così, senza vederlo materialmente, è meglio per noi.
 
  Possiamo allora dire che le nostre assemblee non si distinguono in nulla da quelle del tempo degli apostoli? Purtroppo no!  C’era qualcosa in quelle assemblee che oggi noi non realizziamo piú, almeno ordinariamente.  C’erano l’amore fraterno e la gioia.  Quelli che si riunivano avevano tutto in comune, non solo «il cuore e l’anima», ma anche i bisogni, i beni, i pasti (prima lettura). Realizzavano una vera comunione fraterna e per ciò stesso erano nella gioia: «Siete ricolmi di gioia», constatava san Pietro con la compiacenza del pastore (seconda lettura).  Ed era in questa comunione e in questa gioia che il Risorto si faceva presente e riconoscibile dai discepoli, ogni volta, e i discepoli si sentivano rigenerati a una speranza viva (seconda lettura).  Era un’assemblea viva in cui ci si riconosceva reciprocamente come discepoli dello stesso Signore e come fratelli.  Da essa si usciva tonificati e pronti a riprendere la fatica quotidiana.  L’impressione che suscitavano nei pagani, uscendo dalle loro riunioni, è stata raccolta da Tertulliano: «Guardate – dicevano – come si amano!».
 
 Cosa manca a noi per realizzare tutto ciò? Perché noi ci troviamo insieme senza essere nella gioia e ci separiamo senza alcun rimpianto e senza che nessun vero cambiamento si sia prodotto in noi?  Perché nessuno può dire, vedendoci uscire dalla Chiesa su Piazza Vidoni: «Guardate questa gente come è nella gioia e quanto si ama»?
 
  Parte della colpa è forse nel modo stesso in cui sono organizzate queste nostre assemblee domenicali: troppo numerose, eterogenee ed anonime, troppo poco spontanee e creative.  Da questo lato, c’è solo da augurarsi che lo Spirito Santo aiuti la Chiesa a rinnovarsi ancora più coraggiosamente e a inventare forme più adeguate ai tempi.  Ciò che in parte sta già avvenendo.
 
  Ma c’è anche da dire che ogni tipo di assemblea fallirà lo scopo, se non cambiamo noi che la formiamo, se non usciamo dal nostro individualismo che non ci permette di aprirci veramente agli altri, di sentirci un cuore solo e un’anima sola, di sentirci solidali e fratelli tra di noi, se in chiesa abbiamo paura perfino di aprire bene la bocca e alzare la voce per pregare insieme, dicendo il «Padrenostro» o il nostro «Amen».
 
  Cosa potrebbe divenire questo nostro trovarci insieme ogni giorno oppure ogni domenica intorno alla mensa della Parola e del pane, in un mondo sempre più bisognoso di comunicazione e sempre più afflitto dall’incapacità di comunicare?Si è scritto che «solo l’amore è credibile». Forse non è neppure esatto.  Solo la comunità oggi è credibile; solo un amore fraterno che si fa comunità dà veramente testimonianza al Vangelo.
 
  Otto giorni dopo la Pasqua, i discepoli erano in casa quando venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Anche adesso, nella nostra assemblea, Gesù viene, sta in mezzo a noi e ci dà la sua pace.  Noi, con Tommaso, lo riconosciamo come nostro Signore e nostro Dio.  Preghiamolo che faccia di noi una vera comunità riunita nel suo nome.

  Gesù, o lo capiamo dalla croce o non lo capiamo affatto, ne è prova il travaglio che tutti stiamo vivendo in questi giorni di pandemia: quanti sono arrabbiati con Dio o gli sembra che cadano tutte le certezze! Tutto questo porta la firma di Gesù: è venuto a dare compimento alla Legge e a fare nuove tutte le cose, non a dare pacche sulle spalle e sorrisi qua e là. La croce è il luogo dove si è manifestato fino in fondo l’amore che Gesù (e tutta la Trinità) ha per noi: tu mi metti in croce ed io non smetto di amarti, tu mi uccidi ma il mio amore è più forte della morte.  Il Risorto ci fa capire la passione e la passione ci aiuta a capire il Risorto, se manca una non c’è più nemmeno l’altro. 

  A partire da questo, guardiamo la nostra vita, l’emergenza del virus, i problemi economici, ma anche le cose belle, gli affetti, la vita che ci è stata data. Ogni nostra croce è spiegata dalla croce di Gesù e, allo stesso tempo, è esperienza di risurrezione. Solo esperienze di questa portata trasformano il cuore e fanno fare scelte grandi, solo così si spiega l’entusiasmo e la forza profetica delle prime comunità.